Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi

Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi è il proverbio preferito in operàri.

Il detto è pure usato da Moravia e fondamentalmente propone un suggerimento semplice e netto, molto pragmatico: è meglio non architettare azioni anche solo disoneste, perché è facile che esse si ripercuotano contro chi le ha pianificate e commesse.

È difficile, in altri termini, pianificare azioni disoneste così nel dettaglio e immaginando, per successiva gestione, ogni successiva relazione causa – effetto, convinti che in qualche modo si potrà farla franca; e ciò vale ancora di più per le azioni illecite o criminali, tanto che il delitto perfetto non esiste.

Per chi fa audit, il proverbio è la controprova della validità e dell’importanza dell’evidenza confermativa, ovvero quell’evidenza che conferma positivamente altra evidenza, specie se di diversa fonte: per esempio una conferma esterna ad un documento interno, oppure un documento che conferma ciò che è stato argomentato in sede di intervista. Se le evidenze raccolte sono contradditorie e non confermano, ecco che il diavolo ha fatto solo le pentole, che sono appunto rimaste senza coperchio.

C’è però un’altra ragione che giustifica l’importanza del proverbio. La consulenza, per sua natura, è inerentemente attività immateriale. È fuffa [in senso figurativo, fuffa è una chiacchiera senza alcun fondamento o significato, un discorso risaputo, un luogo comune], direbbero alcuni. Se è vero che il consulente viene chiamato a consigliare perché ne sa di più, è altrettanto ragionevole ipotizzare che dall’altra parte ne sappiano di meno e, infatti, la consulenza risiede tutta nel trasferimento di tale conoscenza, prestazione che normalmente, ma non necessariamente, viene remunerata.

Vendere fuffa in consulenza è quindi il modo migliore per fare soldi facili, specie se non si ha l’intenzione di costruire un rapporto continuativo con il cliente e se si ha l’accortezza di dire cose sufficientemente generiche e, possibilmente, senza lasciare troppo di scritto. Il consulente disonesto propone di fare tante riunioni, senza neppure sentire l’esigenza di avere un ordine del giorno: meetings about meetings, si dice in inglese. Il consulente onesto si espone con la propria faccia, ha opinioni, entra nel merito e scrive documenti che sono patrimonio informativo del cliente. Non ha niente da nascondere e non ha alcun timore delle conseguenze delle proprie azioni o delle proprie parole.

L’onestà in consulenza è un valore, invece; ed è un investimento duraturo, perché sviluppa e consolida il rapporto fiduciario con il cliente. Fa bene alla salute, inoltre: fa dormire sonni tranquilli e tiene sotto controllo la pressione. Il consulente onesto invecchia bene, come il buon vino.

 

 

La metacompetenza di una mamma

Quando arriva la “prima cosa bella” della nostra vita – il nostro primo figlio – e dopo averla tanto sognata e desiderata si catapulta nella nostra vita, non c’è dubbio che ci sconvolga un poco, rimettendo tutto in discussione con le relative priorità.

Un istante dopo realizzi che devi prenderti #cura di qualcuno e improvvisamente vieni sopraffatta dalla paura e dalla responsabilità di “crescere” qualcuno che dipende totalmente da te: ci pensi e realizzi che tutto quello che hai studiato sui libri e imparato sul lavoro, sino a quel momento, è poco utile.

Ma poi ti butti e impari sul campo, certamente sbagliando, giorno dopo giorno; osservi, ascolti, cadi, ti rialzi, ti alleni, lasciandoti cambiare e facendoti ispirare fino ad arrivare alla consapevolezza che il vivere questa esperienza di vita ti ha profondamente trasformata.

Comprendi, insomma, che sei una persona speciale e che puoi fare cose che altri nemmeno immaginano. Te ne accorgi anche a lavoro, dove fai tesoro dell’accresciuta capacità nella gestione dei tempi e della maggiore empatia che hai con gli altri, per citare soltanto alcuni esempi.

Noi mamme abbiamo acquisito un “Master” in più.

Come dice MAAM – Maternity as a Master nel libro La maternità è un Master: Generare non significa solo “fare figli”: la generatività è data dalla cura, dalla vicinanza, dall’affinità tra soggetti e progetti. È quell’attenzione speciale e focalizzata che si riserva a chi e a cosa decidiamo di ascoltare, promuovere e di amare”. È il desiderio di dare vita, di far uscire nel mondo qualcosa che ci trascenda. Frutto di attenzioni e gesti, cure e sguardi energetici e calorosi, la cura, secondo l’etimologia latina, forse fantasiosa, ma anche antica e illuminante, ha la sua radice (e la sua essenza) in “cor urat” , ciò che “scalda il cuore”.

La maternità è prendersi cura. E prendersi cura degli altri, da noi in operàri, è un valore.

Lavorare con impegno: il consulente e i risultati che contano.

Nell’immaginario collettivo consulenza e impegno sono termini che potrebbero essere accostati per formare un ossimoro. Tanti anni fa girava un disegno che rappresentava la consulenza come una gara di canottaggio: era un quattro-con e il consulente – lo intuite da soli – faceva il timoniere, mentre a remare era il cliente. Faceva sorridere.

Scegliere di chiamarsi #operàri e fare consulenza è stata la cosa più naturale del mondo; voleva affermare una semplice verità, quella che ritiene che esista un solo modo di fare le cose: lavorare e con impegno. Che poi non sarebbe neppure necessario precisarlo, perché non dovrebbe esistere un modo diverso di intendere il lavoro. Persino a scuola, quando sei ragazzo, te lo ripetono sempre: “Impegnati e i risultati arriveranno”. Con serietà e costanza, si possono raggiungere i migliori risultati.

“L’impegno del consulente è, innanzi tutto, nella dedizione per lo studio: e non soltanto nei primi anni di lavoro – che sono senza dubbio quelli in cui ci si forma più rapidamente – ma anzi anche e soprattutto più avanti negli anni, perché in ciò si caratterizza la nostra professione”.

Forse sfugge a molti, ma la principale aspettativa del cliente è che il consulente ne sappia di più del cliente stesso, con riferimento alla propria specializzazione; nel tempo, finirà per saperne molto anche dell’attività del cliente stesso, ma il minimo sindacale è che il consulente conosca la teoria, sia curioso verso le novità, adotti con serietà metodi e strumenti, a regola d’arte, potremmo dire.

È un impegno costante, nascosto, serio, certamente non immediatamente produttivo di risultati visibili; rappresenta le fondamenta della bottega del consulente. È tuttavia soltanto metà dell’opera.

Il consulente, certamente, consiglia. L’impegno necessario nella fase attuativa della nostra professione è orientato al trasferimento concreto delle nostre conoscenze al cliente, che tuttavia devono essere adattate alla specifica cultura organizzativa. In altri termini, l’impegno che è richiesto deve attivare ed agevolare il raggiungimento di risultati presso il cliente; non ci sono scorciatoie. Non si lavora riciclando i documenti e cambiando solo il logo, perché così si fa solo carta che finisce in un cassetto. Non si è di aiuto a nessuno se si fa un mero riferimento alla migliore pratica manageriale internazionale, perché a pontificare sono buoni tutti.

È questo l’impegno che sviluppa e cementa la relazione di fiducia, che è il collante necessario quando si fa consulenza. Ripaga bene e dà grandi soddisfazioni, nel lungo periodo.

Due o tre cose che ho da dire sul South Working

Quest’anno il tema dello smartworking è stato al centro dell’attenzione di molti media. In particolare nella declinazione del “lavorare al sud”. Noi di operàri facciamo una netta distinzione tra lavoro agile e smart working così come comunemente inteso. Il nostro modo di agire ha così attirato l’attenzione di alcune testate e le nostre colleghe Maria Calabria e Ilaria Bambara sono state intervistate dalla rivista South Working – Lavorare dal Sud e da Il fatto quotidiano, ne emerge un quadro di riflessione sul quale Vittorio Gennaro ha scritto l’articolo che condividiamo. Un punto di vista forte e chiaro come siamo in operàri. Buona lettura

Due o tre cose che ho da dire sul South Working

Il mio personale punto di vista sull’iniziativa South Working è ben noto: apprezzo ciò che Elena Militello sta portando avanti insieme agli altri e sono pronto a fornire il mio contributo di esperienza imprenditoriale.

In operàri facciamo Smart Working dal 2018 e lo facciamo sul serio; il lockdown non ci ha trovato, insomma, impreparati e ai primi giorni di giugno – non appena è stata annunciata la possibilità di spostarsi tra le Regioni – ho immediatamente suggerito personalmente a tutti di prenotare un volo in tutta fretta, prima che finissero i posti disponibili, per tornare a casa e lavorare agile dalla terrazza e guardando il mare, che tanto non sarebbe cambiato nulla in termini di efficienza ed efficacia nel lavoro di team e con i nostri clienti.

In qualità di imprenditore e datore di lavoro, ho pensato di fornire un contributo economico a copertura dei costi non ricorrenti, fosse il costo del biglietto aereo oppure il maggior costo della connessione dati. Mi è sembrata la cosa giusta da fare, senza tanto clamore mediatico.

Devo riconoscere, tuttavia, che ciò che abbiamo attivato non è vero South Working, bensì ne è la versione estiva, quella facile da realizzare; del resto il nostro è il paese nel quale il 3 giugno si inizia già a dire: ne parliamo a settembre.

Vorrei quindi esprimere il mio punto di vista sul tema, anche in considerazione del fatto che noi abbiamo fatto davvero impresa dal Sud, e per ben dieci anni, partendo da Cagliari e raggiungendo da lì tutti i nostri clienti in giro per l’Italia.

Innanzi tutto, quando si fa impresa il cliente ha sempre ragione; noi facciamo i consulenti e in questo periodo di lockdown sono stati i nostri stessi clienti a chiederci di lavorare da remoto: insomma, i nostri clienti – in senso assoluto dapprima e in accordo con il Protocollo COVID poi – non ci volevano e ancora non ci vogliono presso i propri uffici. La stessa normativa e i principi di una sana gestione del rischio suggeriscono di limitare gli spostamenti non necessari e le riunioni in presenza, come abbiamo fatto sin da fine febbraio. Facile fare South Working quando nessuno ti chiede di essere altrove, insomma.

Quando avevamo base a Cagliari, i nostri consulenti viaggiavano per il 65-70% del proprio tempo e vi assicuro che ciò può sembrare entusiasmante nei primi anni di lavoro; poi stanca e non poco. Mettiamo pure che la tecnologia abbia fatto passi da gigante e che quindi oggi si possano fare da remoto cose che quindici anni fa non si potevano neppure immaginare: non credo che in ogni caso si possa scendere sotto il 40% in termini di trasferta, diciamo poco meno di due settimane al mese. E viaggiare e stare in trasferta costa.

Questi costi di trasferimento e di trasferta erano per lo più a carico nostro, perché non ce l’aveva ordinato il dottore di avere una base su un’isola. Se tuttavia fare South Working fosse una scelta del singolo, nella discrezionalità che l’accordo di lavoro agile consente, a carico di chi dovrebbero essere questi costi, secondo voi?

In secondo luogo, da imprenditore e da consulente ho imparato una cosa: sono le diversità e il confronto ad arricchire le persone e ad assicurare un rapido sviluppo professionale. L’azienda è un forma di aggregazione sociale e non parlo soltanto dei colleghi, ma parlo anche e soprattutto di quell’eco-sistema fatto di colleghi più giovani che hanno bisogno di vicinanza e supporto – perché si impara un lavoro anche stando vicini, per osmosi si potrebbe dire; arricchito di colleghi più anziani ed esperti, che hanno il dovere etico di trasferire agli altri ciò che sanno e ciò che hanno imparato – e tutto ciò non si può fare soltanto per il tramite di un video-call su Teams; completato dai clienti – soprattutto dai clienti – vuoi perché facciamo i consulenti e il respiro organizzativo dei clienti si apprezza soltanto di persona, in loco, vuoi perché in particolare siamo auditor e la parola audit viene etimologicamente dal latino e significa ascoltare.

Noi non siamo isole e noi dobbiamo costruire ponti e il lavoro agile rischia – se se è svolto sistematicamente in remoto – di impoverirci professionalmente. E la quiete del borgo non è sufficiente a compensare questo impoverimento.

Per questo il nostro accordo di lavoro agile dice innanzi tutto che non si possa parlare di lavoro agile se siamo dai clienti: è una precisazione voluta e non casuale, perché vuole preservare – nel rispetto delle libertà di auto-determinazione del luogo e del tempo del lavoro – la possibilità di costruire ponti e non invece muri.

La mia personale interpretazione del lavoro agile, di cui il South Working vuole essere una mera specifica geografica, è quindi innanzi tutto una modalità di arricchimento professionale, perché sollecita e indirizza le persone a sviluppare forme di auto determinazione dei tempi e dei luoghi di lavoro, focalizzando l’attenzione su quelli che sono gli obiettivi.

Il lavoro agile è la forma moderna di interpretazione e di attuazione del contratto di lavoro: attuare le direttive del datore di lavoro, con ampio ricorso all’auto determinazione delle modalità esecutive.

Inoltre il lavoro agile agevola il bilanciamento della vita professionale con la vita privata. Rispetta la persona e le proprie necessità: gestire gli impegni personali durante la giornata, fare attività fisica o ricreativa senza che sia notte, partire prima per un fine settimana al mare o in campagna, andare a trovare più spesso i propri cari che stanno lontano, spesso al Sud. In questo senso, sia benvenuto il South Working.

Il lavoro agile, specie nella modalità del South Working, non deve essere invece inteso come un modo per risparmiare sul contratto di locazione, perchè a casa non si spende nulla e mamma cucina meglio. Per favore, questo non si può sentire, perchè in Svezia escono di casa a poco più di 18 anni e noi invece a 30, come conferma Eurostat.

Vittorio Gennaro

La “passione integrata”

Mi sono avvicinata alla “consulenza” alla vigilia della discussione della mia tesi di laurea, mentre cercavo di capire cosa volessi fare “da grande”: per caso ho assistito alla presentazione di una Senior- di una società multinazionale (una delle big four) – sulle attività di audit e sono rimasta affascinata dalla #passione che emergeva dalle parole con cui raccontava la sua storia. Ci sono delle parole che mi sono rimaste impresse e che mi hanno convinta definitivamente ad iscrivermi in quella “palestra” di vita e di lavoro chiamata consulenza; queste parole, ancora oggi, sono rappresentative di NOI e sono parte del nostro dna: viaggiare per scoprire nuovi luoghi e persone, imparare velocemente spaziando in più campi, seminare oggi per accrescere le relazioni domani, lavorare in squadra per confrontarsi, crescere mettendosi continuamente in discussione.

Si perché se non si “va oltre” e non si osa superare i propri limiti si rischia di rimanere in trappola della propria zona di comfort che ognuno di noi si è nel frattempo costruita e se lo si fa insieme è sicuramente più facile.

 

NOI abbiamo cercato di unire la genuina passione per il nostro lavoro affinando anno dopo anno i nostri metodi e strumenti , per farlo dedichiamo, ognuno in base alle proprie conoscenze e esperienze, una significativa parte del nostro tempo allo studio, anche per il tramite delle certificazioni internazionali dell’AIIA  nonché allo sviluppo di nuovi servizi in base ai desiderata dei nostri clienti, i quali ci hanno sempre riconosciuto e tuttora ci riconoscono una pervasiva dedizione, o per dirla nel nostro gergo tecnico “passione integrata”.

NOI siamo fatti così

Alessandra Barlini

Lavoro e famiglia: un binomio finalmente possibile

Sono entrata a far parte della squadra di #operàri quando il mio secondo figlio aveva appena sei mesi e, di certo, non avrei potuto riprendere così presto la mia attività se #operàri non avesse avuto una visione così innovativa del lavoro.

“#operàri, infatti, ha realmente abbattuto la vecchia concezione del posto fisico di lavoro abolendo qualsiasi vincolo di orario e spazio”.

In #operàri si lavora anche da casa e l’attività viene organizzata per fasi, cicli e obiettivi, mediante un accordo con i componenti dei vari team. Inutile dire che tale modalità mi ha aiutata a conciliare i tempi della famiglia con i tempi del lavoro rendendo sicuramente più agevole quest’ultimo! Insomma #operàri si è fatta promotrice di un cambiamento culturale importante soprattutto per il mondo femminile e non posso che essere fiera di farne parte.

Valentina Baldo

 

Dall’Università direttamente nel mondo lavoro: l’azienda e non una piccola

#operàri mi ha sin da subito permesso di entrare nel vivo delle attività di cui si compone la propria realtà aziendale. Ad una settimana dal mio arrivo ho avuto l’opportunità di lavorare presso la sede di un cliente multinazionale, per un periodo di circa tre mesi.

“Timore ed entusiasmo sono i sentimenti che hanno contraddistinto l’inizio di questa mia esperienza; sarei entrata a far parte di un team del tutto a me sconosciuto, presso un cliente di cui percepivo l’importanza”.

Da lì a breve tempo ho imparato quanto sia essenziale sentirsi parte di una squadra, condividerne risultati, esperienze, nozioni e perché no, stati d’animo. Sono fiera e grata del bagaglio di conoscenze accumulato fino ad oggi, di cui questo primo banco di prova, non ha che rappresentato un inizio promettente.

Ilaria Bambara

Lavorare per mesi senza aver mai incontrato i colleghi

È possibile iniziare una nuova esperienza lavorativa, interagire e lavorare con il nuovo team di lavoro senza aver mai incontrato/conosciuto i nuovi colleghi? Ebbene sì, vi racconto la mia esperienza!

Sono entrato a far parte della squadra di #operàri all’inizio del mese di marzo 2019, mentre in Italia e nel resto del Mondo iniziava a dilagare la pandemia del COVID-19 e le relative conseguenti misure di lockdown.

“Dietro lo schermo del mio PC, non mi sono mai sentito solo”

ed ho potuto conoscere approfonditamente tutti i nuovi colleghi, il loro modo di essere ed i relativi hobby anche grazie ad iniziative tanto uniche quanto apprezzate (come dimenticare gli incontri “virtuali” di gruppo del venerdì con il supporto di psicologa per meglio affrontare la quarantena?!).

Ho potuto sin da subito apprezzare lo spirito di squadra e l’ambiente di lavoro, ed ho capito che lo slogan tanto in voga in quei giorni faceva proprio al caso nostro…#distantimauniti.

Luigi Errico

Lo smartworking, quello vero

Lo smart working o lavoro agile è, secondo la normativa vigente, è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.

Partiamo dall’inizio, così poco compreso: non è lavoro agile la prestazione lavorativa che abbia sostanziali vincoli di luogo di lavoro, perché se sei libero di fare lavoro agile un giorno alla settimana chiedendo autorizzazione una settimana prima, la libertà è poca e i vincoli sono tanti.

Per quanto si voglia essere flessibili, ci sono attività che richiedono la presenza in un certo luogo e in un certo tempo: poniamo per esempio che si faccia formazione in aula per i clienti: senza dubbio è possibile preparare il materiale del corso ovunque; già possiamo avere qualche problema sul tempo di esecuzione, perché se è vero che possiamo anche ipotizzare un lavoro asincrono nel tardo pomeriggio dopo essere tornati dal mare, è altrettanto evidente che sarà necessario condividere ciò che abbiamo fatto dapprima con i colleghi – che hanno pure loro la propria vita, i propri impegni, il proprio lavoro agile – e poi con i clienti – che hanno la propria vita, i propri impegni e, inoltre, pagano a fine mese, il che non è poco.

È quindi necessario innanzi tutto stabilire, già nell’accordo tra il datore di lavoro e il lavoratore, che ci sono alcune peculiarità o alcune attività specifiche nell’esecuzione dell’attività lavorativa che non si prestano ad alcuna forma di libertà di orario o di luogo; insomma che ci sono fasi o cicli o attività che semplicemente non sono e non possono essere in alcun modo lavoro agile.

Per il resto ci si può e si deve organizzare; la tecnologia non è proprio facoltativa, come la norma vorrebbe far credere: è essenziale. Significa che gli strumenti applicativi necessari devono essere tutti disponibili e funzionanti, così come l’accesso alle informazioni, così come la necessaria connettività dati. Si può essere un’isola per qualche ora, forse qualche giorno; poi senza connessione con i dati e con gli altri, non è più lavoro che nobilita, bensì è solo sofferenza.

Nell’organizzarsi, bisogna considerare che il lavoro agile richiede la costruzione di ponti e non invece appunto la solitudine di un’isola. Non si lavora mai da soli, se non per brevi periodi. Si lavora sempre con gli altri nel raggiungimento degli obiettivi; soltanto nel confronto con gli altri si impara, si sbaglia, si corregge, si è più efficienti. Pensare quindi che non vi siano davvero vincoli di orario è altrettanto sbagliato. Tutto questo senza considerare i clienti, che pure hanno diritto di parlare con noi e magari non sanno neppure cosa sia il lavoro agile nella propria azienda.

       

“Lavoro agile è la capacità, che si impara nel tempo se l’azienda lo permette, di comprendere dove e quando sia meglio svolgere ciascuna attività; ci sono cose che si possono fare meglio con la concentrazione e con la tranquillità di una terrazza sul mare; ci sono altre cose che per cortesia professionale e per rispetto per gli altri vanno fatte insieme agli altri, magari in collegamento video; ce ne sono altre che beneficiano enormemente del confronto di persona, perché la comunicazione non verbale è tanto importante quanto la comunicazione verbale, come succede quando vogliamo trasferire conoscenze e imparare dagli errori. Se così non fosse, avrebbero già chiuso le scuole e saremmo tutti davanti ad uno schermo”.

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Noi lavoriamo agile dal 2018, eppure non smettiamo mai di imparare come lavorare meglio e agili; ci proviamo, impariamo; proponiamo idee; adottiamo soluzioni, anche tecnologiche; snelliamo i processi, soprattutto comunichiamo tra noi. Il nostro smart working sta tutto nella nostra testa e non su un pezzo di carta.